Formazioni rocciose, dune di sabbia, grovigli di pruni e altri frammenti di una natura impervia. Le opere di Francesco Simeti sembrano un archivio, solo all’apparenza disordinato, di fiabe bucoliche e di paesaggi arcadici. Nelle sue trame e nei suoi fondali l’elemento umano – incarnato da silhouette industriali e forme meccaniche – è solo una presenza fugace, anche se costante. Come fosse un lento e inevitabile processo di erosione. Non un’invasione, ma piuttosto una sorta di “mutazione” del paesaggio. Non un’inspiegabile degenerazione, non una malattia misteriosa. Ma l’esito di una ferita consapevolmente lasciata aperta, trascurata per inerzia e per pigrizia. Una metastasi tanto scontata da farne confondere cause ed effetti.
In questo processo, vittime e carnefici si mescolano, si mimetizzano. Proprio come nel grande quadro che ha ispirato la serie di lavori presentati da Primopiano. Nella battaglia per la riunificazione di Lianzhen, infatti, gli schieramenti sembrano confondersi, complici anche fitti banchi di nebbia e serpeggianti fili di fumo. Elementi, questi, che ritroviamo nei wallpaper dell’artista: qui, stilizzati refoli di vento spazzano dense nuvole che Simeti potrebbe aver ritagliato allo stesso modo da un cielo d’Irlanda, o dal fumaiolo di una centrale termoelettrica. Anche le nuvole, dopotutto, sono una forma di mutazione. Una violazione dell’equilibrio su cui regge l’ossigeno in seguito all’accidentarsi e al mescolarsi di altre sostanze.
È una questione di molecole. O meglio, di dettagli, che da sempre sono una delle principali chiavi di lettura per l’interpretazione dell’opera di Simeti. Così come lo sono i titoli delle sue opere – comodi appigli per la comprensione forniti anche agli osservatori più indolenti. “Billowing”, per esempio, è un termine inglese che allude da un lato all’ondulante danza del fumo che fuoriesce da un comignolo, e dall’altra al soffio del vento che scuote, incalza e agita un gonfalone nell’aria. Nel video realizzato dell’artista e così intitolato, questa dicotomia è resa evidente dal marciare dei portabandiera, sferzati dal vento e al tempo stesso avvolti da fumi che sembrano provenire da un’invisibile quanto anacronistica ciminiera.
Simeti ci mette davanti a uno scenario ambivalente, dove il gesto estetico sfila di pari passo con la volontà di sensibilizzare a una coscienza ambientale, mentre le armate Manciù entrano ed escono di scena come i personaggi di un teatro delle ombre. O di un’ Opera dei Pupi: quella sublime forma teatrale – legata alla terra natia dell’artista – dove Orlando e Rinaldo si danno battaglia da sempre e per sempre, al fin di vincere l’amore della bella Angelica. In loro è celata la feroce volontà di battersi “nella più invisibile delle guerre invisibili”, ovvero quella che combattiamo con noi stessi. Una battaglia sempre aperta. Come quella tra uomo e natura, appunto.