Il lavoro di Riccardo Beretta si colloca in un terreno liminale tra la valenza puramente estetica dell’opera d’arte e la funzionalità dell’oggetto, attraverso una ricerca che recupera tecniche artigianali per sperimentare le potenzialità dei materiali e definire una poetica del fare come pratica conoscitiva.
Intervenire sulle qualità specifiche di un materiale o alterare la struttura di un oggetto è per Beretta un modo per osservare il linguaggio delle cose e interrogarsi sulla realtà e i codici che ne regolano il funzionamento. Questi codici diventano terreno d’indagine e punto di partenza per la costruzione di un linguaggio e un vocabolario nuovi e del tutto personali.
Il progetto costruisce un percorso che attraversa diverse fasi del suo lavoro: dall’intarsio ligneo al ricamo e la fotografia, le opere in mostra sono un esempio della pluralità linguistica di Beretta e della molteplicità di riferimenti che, dalla letteratura alla musica, dal design alla storia dell’arte, contraddistinguono la sua ricerca.
Confrontarsi con la bellezza naturale di un determinato materiale e, partendo da questa, verificare la possibilità di costruire una propria idea di bellezza è stato il punto di partenza di lavori come Il Mare. Il titolo deriva da un’area della pavimentazione tessulare della Basilica di San Marco a Venezia, composta da dodici lastre di marmo proconnesio accostate “a libro”, ovvero in modo tale che le venature del marmo si sdoppino specchiandosi. Beretta ha adottato questa tecnica accostando dei piallacci di legno alla stessa maniera e intervenendo poi con tarsie di legni naturali tinti che ripercorrono in diversi punti la texture della superficie. Il risultato è una mappa di colori, forme e materiali che trasformano questi pannelli in paesaggi astratti e inattesi.
Nell’accostamento di tre varianti de Il Mare III (2011-2012) è possibile vedere come gli intarsi colorati si relazionino ogni volta in modo differente alla texture naturale del legno, assumendo sembianze e valenze diverse rispetto alla tipologia di materiale utilizzato. Le forme intarsiate sono sempre le stesse, ma se in uno dei tre pannelli c’è una coincidenza tra queste forme e le venature del supporto, in un altro la scelta di un tipo di legno dalla texture cromaticamente più uniforme fa sì che questa coincidenza manchi del tutto e che le tarsie diventino completamente astratte. Nel terzo elemento le forme colorate tornano a dialogare con quelle della superficie lignea ma stavolta contrapponendosi a quelle che fanno da sfondo: la parte a destra ridisegna le venature del pannello a sinistra e viceversa. I tre elementi diventano un’unica superficie cangiante in cui le stesse forme cambiano di posto generando un’idea di movimento che in realtà non c’è.
La distribuzione dei colori non è casuale: c’è una simmetria che ne scandisce il ritmo in modo che l’occhio possa vagare e perdersi in queste superfici per imbattersi nel regolare ripetersi di ciascuno di questi colori.
Gli inequivocabili riferimenti a una tradizione italiana che va da Carlo Bugatti a Ettore Sottsass sono in questi come in altri lavori sempre aperture verso immaginari e culture altre: l’utilizzo di legni provenienti da luoghi geograficamente lontani – come lo zebrano africano e il tamo marezzato giapponese – genera infatti una mescolanza di culture e identità che ricontestualizza ogni riferimento alla tradizione locale in una dimensione globale.
La matrice pittorica di questi lavori sconfina in una dimensione di natura più prettamente scultorea in ½ Pilastro, un’opera che si relaziona in modo diretto alla serie de Il Mare nella misura in cui può esserne considerata un’evoluzione tridimensionale e autoportante. Realizzata nel 2010, quest’opera nasce dopo una mostra a Villa Necchi Campiglio dove l’artista aveva presentato due pannelli intarsiati appoggiati a due magnolie del giardino (Portoro, 2010): è in quegli alberi usati come delle colonne o dei pilastri naturali e nel desiderio di restituire ai materiali la verticalità originaria che risiedono i presupposti di un lavoro come ½ Pilastro.
In un’altra serie che recupera invece l’antica tradizione del ricamo, le sperimentazioni fatte sul legno si traducono nella rielaborazione di un materiale profondamente diverso: la scrittura.
Tre arazzi riportano un estratto da “Se Questo è un uomo” di Primo Levi. Il primo, Donnerwetter (Primo Levi), 2011-2013 riproduce questo testo su un velluto di colore blu in lingua italiana, lasciando in tedesco l’unica parola che anche Primo Levi lascia in lingua originale nel suo libro, “Donnerwetter” – espressione colloquiale traducibile come “accidenti”. A questo ricamo fa da contrappunto Donnerwetter (2011-2012) che riporta invece la versione tedesca dello stesso testo, ricontestualizzando il suono di questa parola all’interno della lingua d’origine. Hurbinek (2011-2013), infine, nasce dalla sovrapposizione delle due lingue che vanno a mescolarsi e sovrapporsi in modo tale da diventare illeggibili e da “cancellarsi” a vicenda. Nel groviglio di fili colorati tra cui le parole si perdono e confondono, “Donnerwetter” è l’unico termine leggibile, essendo questo il punto del testo in cui le differenze tra le due lingue si annullano. Gli intrecci di fili e colori trasformano le parole in una geometria di forme astratte e articolano lo spazio del testo che diventa tanto una storia da leggere quanto un quadro da guardare.
Lontani da qualsiasi intento celebrativo, i ricami di Beretta hanno un sapore domestico e arcaico allo stesso tempo, la cui origine va ricercata nel tatuaggio come forma primordiale di decorazione – “ricamo” – sul corpo.
Sebbene la scelta dei testi non sia casuale è nel gesto di ricamarli che consiste il senso del lavoro, e nel fatto di farlo partendo dalla rielaborazione formale di ogni singola lettera che trasforma un testo scritto in qualcosa di diverso e inatteso.
Il testo è infatti realizzato con un font tipografico inventato dall’artista. Nel 2009, in occasione della sua prima personale da Lucie Fontaine, Beretta decide di ideare un font, Fontaine, che da quel momento in poi avrebbe impiegato in (molte occasioni in cui fosse richiesto l’utilizzo della scrittura (dagli inviti, ai cataloghi, a lavori veri e propri come appunto quelli in mostra): un segno di riconoscimento che potesse immediatamente identificarlo.
L’invenzione di questo font si inscrive all’interno di una pratica artistica che si basa interamente sulla costruzione dal nulla: così come per i lavori ad intarsio, anche in questo caso Beretta parte dalla materia prima costruendosi un suo alfabeto personale.
L’attenzione per il mondo della tipografia, della grafica e della comunicazione va letta dunque nella stessa ottica in cui si inscrive l’interesse per l’artigianato e le arti applicate, ovvero per lo studio di discipline tecniche regolate da norme e codici precisi.
L’artista si affida alle competenze di esperti artigiani per la realizzazione dei suoi progetti. Ogni opera è dunque il risultato di un lavoro di equipe: l’“epilogo di una narrazione” – come ama definirla Beretta – ovvero il compimento di una storia condivisa con gli artigiani coinvolti. Se progetti complessi come gli strumenti musicali, i ricami su grande formato, le tarsie lignee, sono la conclusione di lunghi processi di lavorazione, il lavoro fotografico I don’t Want to Live a Life of episodes and fragments nasce invece dall’idea di documentare questi processi facendoli per la prima volta diventare soggetto stesso dell’opera.
Questa serie di fotografie, realizzata nel 2011 in occasione dell’omonima mostra all’Artists Unlimeted Gallery di Bielefeld, in Germania, documenta il work in progress della costruzione di un clavicembalo (Birba, 2009-2011): l’idea era quella di restituire il clima del laboratorio artigianale e le azioni degli artigiani ma in modo che il senso ultimo restasse incomprensibile. Si tratta di immagini sovraesposte, in cui ogni gesto resta pienamente intellegibile ma allo stesso tempo è decontestualizzato, temporalmente e spazialmente, e dunque astratto: le figure restano identificabili come tali ma perdono ogni connotazione diventando delle sagome. Sono delle ombre, o echi di figure che pur nascendo come documentazione di un processo ne contraggono i tempi per restituirli nell’astrazione di forme che ne sono la sintesi e l“immagine”.
Nei lavori di Beretta non appare mai la figura umana ma il riferimento al corpo è una costante: gli intarsi mettono in campo le abilità manuali e le capacità umane di trasformare un materiale, i ricami evocano il tatuaggio come forma di decorazione sulla pelle, gli strumenti musicali sono dispositivi che nell’essere attivati assumono il loro senso compiuto, il pensare e presentare spesso i lavori come coppie insistendo sul tema del doppio rimanda all’anatomia del corpo umano.
E il corpo è anche la chiave di lettura di MUSEUM Arazzetti (2013), i 10 cuscini colorati realizzati appositamente per questa occasione su cui l’artista ha ricamato i nomi di alcuni celebri artisti. Da Giacomo Balla a Pino Pacali, da Robert Morris a Franz West, Riccardo Beretta ha ideato “una collezione nella collezione”, fatta però solo di nomi da leggere ai quali è affidato il potere di evocare opere fisicamente non presenti.
Come un intarsio allargato, gli arazzetti si vanno a incastrare tra le maglie della collezione Cassina creando un percorso parallelo, mentale e completamente privato, a quello esistente.
Se solo nel caso di Melotti, Chiattone e Katz – artisti esposti nelle stanze – le due collezioni, quella immaginaria e quella reale, si incontrano, è a Balla che l’artista affida il ruolo di evocare una visione esemplificativa dell’intera mostra.
Il titolo, Kerato~Konus, significa letteralmente cornea conica, una patologia che genera distorsioni delle immagini e alterazioni della vista in presenza di fonti luminose che perdono nitidezza e assumono contorni indefiniti. Kerato~Konus diventa un’espressione che racchiude la pluralità linguistica dei lavori in mostra e traduce, letteralmente e metaforicamente, un “modo di vedere le cose”: Ho pensato al titolo mentre guidavo di notte. I fari delle auto davanti a me erano circondati da un alone rosso. Ho chiesto ad Alice di descrivermi come vedeva quelle luci. ‘Nitide’, ha risposto. A me sembrava di essere in un quadro di Giacomo Balla (RB).
Riccardo Beretta (Mariano Comense, 1982, vive e lavora a Milano) ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Brera e l’Universität der Künste di Berlino con Lothar Baumgarten. Tra le mostre personali ricordiamo “Donnerwetter”, ZERO…, Milano (2012); “I don’t want to live a life of episodes and fragments”, Artists Unlimited Galerie, Bielefeld (2011); “All in good time” (con Daniel Knorr), Basilica di Santa Maria Maggiore, Bergamo (2011); “Birba”, TÄT, Berlino (2011); “Ostello Universale”, PIANISSIMO, Milano (2009); “Ti manco a Milano?”, Lucie Fontaine, Milano (2009). Ha partecipato a eventi espositivi internazionali come la Biennale di Praga 5 (2011), e a diverse collettive presso gallerie private come Marianne Boesky Gallery, New York (2012) e musei italiani e internazionali come la Galleria d’Arte Moderna, Milano (2012), la GAMeC, Bergamo (2011), il PAC, Milano (2010), il Museum of Modern Art Genaro Perez, Cordoba, la Casa de Cultura, Salta e il Museum of Contemporary Art, Mendoza, Argentina (2007-2008).